A CACCIA di RELIQUIE: il SANTO GRAAL (prima parte)

I primi santi e i primi martiri cristiani erano orientali e l’abitudine a venerare i luoghi dove erano stati sepolti, con la convinzione che i loro corpi potessero operare miracoli, si diffuse nel mondo occidentale assai presto.
Per questo, un numero impressionante di pellegrini erano pronti ad affrontare lunghi ed estenuanti viaggi per raggiungere quelle tombe e vedere qualche santa reliquia: ossa, capelli, lembi di abiti, ecc…
All’inizio lo scopo era solo quello di vedere e venerare quei resti, ma poi subentrò il desiderio e qualche volta la necessità, di possederne. Per se stessi o per esporle in qualche Chiesa o Santuario.
Portar via una reliquia era piuttosto facile e i “cacciatori di reliquie”, monaci, cavalieri, pellegrini, erano molto attivi.
Le reliquie più importanti, però, erano quelle riguardanti il Cristo e la Passione: il Calice dell’ultima cena, la Croce, la Lancia che gli aveva trafitto il costato, la Corona di spine, ecc… , ma quelle non erano davvero alla portata di tutti, poiché erano avvolte di mistero e simbolismi e per questo, inavvicinabili.
Noi proveremo a seguire il percorso di alcune di loro, chiedendo il contributo per una maggiore chiarificazione, a chi possedesse più precise conoscenze al riguardo.

IL SANTO GRAAL
La leggenda del Santo Graal, più di ogni altra mistica credenza, governò l’animo ed a volte l’intera esistenza non solo di re e principi, ma di tutto il popolo occidentale.

Perché tanto interesse?
Non certamente per semplice curiosità o necessità di vedere e toccare gli strumenti di tortura del Cristo, ma per ragioni assai più profonde.

Che cos’è il Santo Graal?
Graal, dal latino medioevale gratalis, significa: vaso, coppa, calice.
Il Graal era il calice usato dal Cristo nell’ultima cena con i suoi discepoli per mutare il vino nel suo sangue e lo stesso oggetto in cui sarebbe stato raccolto il sangue colato dalle sue piaghe mentre era sulla croce.
Secondo la tradizione, Giuseppe d’Arimatea, uno dei componenti del Sinedrio di Gerusalemme, contrario a quella condanna, portò con sé il Calice dell’Ultima Cena e raccolse il sangue colato dalla ferita prodotta dal colpo di lancia nel costato del Cristo. Egli conservò il sangue e lo custodì fino alla sua morte, quando lo affidò al fratello minore che lo portò in Bretagna, nel castello di Corbenic.
Da quel momento, del Santo Calice non se ne seppe più nulla fino al Medio Evo: scomparso, si diceva, a causa delle iniquità degli uomini.

Fu proprio allora, intorno all’anno 1000-1100, che si aprì la “caccia” alla Reliquia; ebbe inizio, cioè, una ricerca su dove fosse finito il Calice.
La più famosa ed operosa fu quella, secondo una leggenda, intrapresa dai Cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù, i quali, dopo lunghe ricerche, finirono per rintracciarlo e lo portarono all’abbazia di Glanstorbury, dove il Santo Calice fu messo sotto custodia.
In quella ricerca, re Artù (personaggio, in verità, di cui sono in tanti a dubitarne l’esistenza), si sarebbe ispirato all’Ordine dei Cavalieri Templari (anche questi, custodi e cacciatori di reliquie di ogni genere); perfino il mantello dei Cavalieri della Tavola Rotonda era come quello dei Templari: bianco e con una Croce Rossa.

Per molti studiosi l’odierna Glanstorbury sarebbe la mitica Avalon di re Artù, dove, per l’appunto, era custodito il Santo Graal, ritrovato da Persifal, Cavaliere senza macchia.
Solamente un cavaliere puro e senza macchia, secondo la leggenda, avrebbe potuto trovare e toccare il Calice: purezza dello spirito, però, più che purezza della carne. E soprattutto un cavaliere di grande generosità d’animo, privo di egoismo o protagonismo, che avesse avuto lo scopo di trovare la Reliquia non per se stesso, ma per il bene dell’umanità.
(continua)

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